Il fascismo omofobo: le vite invisibili dei “pederasti” al confino nel Sud Italia

Una graphic novel e un libro su una persecuzione dimenticata. Il codice penale Rocco non lo riteneva un reato: «Da noi il vizio non è abbastanza diffuso». La Polizia aveva massima discrezionalità di agire.

Articolo di Bruno Ruffilli su La Stampa

Due libri, una sola sfida: raccontare le storie dimenticate all’ombra della grande Storia. Così, mentre sul ventennio fascista le pubblicazioni si moltiplicano senza soluzione di continuità, a ripercorrere le vicende degli omosessuali confinati sotto il Duce sono due titoli usciti di recente. Uno è In Italia sono tutti maschi, di Sara Colaone e Luca de Santis (pp. 190, euro 19), premiato come miglior fumetto nel 2009, tradotto in otto lingue e appena ripubblicato da Oblomov.

Già dal 1928 le autorità fasciste destinavano gli omosessuali al confino, il soggiorno obbligato in piccoli centri o isole per un periodo che andava da uno a cinque anni. Lo scopo era prevenire i reati da parte di persone ritenute predisposte, o sospette, e impedire che potessero organizzarsi in comunità. I condannati erano mafiosi, soprattutto, ma poi – sempre più spesso – dissidenti politici, e in generale chiunque mostrasse comportamenti ritenuti sconvenienti o immorali e tuttavia non punibili a rigor di legge: ad esempio prostitute, transessuali, e quelli che il regima definiva “pederasti”.

In Italia, a differenza di altri Paesi, l’omosessualità non era un reato: il Duce si era opposto a un articolo specifico del codice Rocco che prevedeva la reclusione da uno a tre anni per le relazioni tra persone dello stesso sesso. Comminare una pena significava infatti ammettere l’esistenza di un fatto: «La previsione di questo reato non è affatto necessaria – si legge nella relazione della Commissione Appiani, che aveva discusso la normativa – perché per fortuna e orgoglio dell’Italia il vizio abominevole che ne darebbe vita non è così diffuso tra noi da giustificare l’intervento del legislatore». E ancora: «E’ noto che per gli abituali e i professionisti del vizio, per verità assai rari, e di impostazione assolutamente straniera, la Polizia provvede fin d’ora, con assai maggior efficacia, mediante l’applicazione immediata delle sue misure di sicurezza e detentive». Così non ci furono omosessuali italiani deportati nei lager nazisti.

Bastava poco: una soffiata, anche anonima, una voce, un bacio, una cartolina potevano avere conseguenze tremende. La denuncia passava dal Questore al Prefetto, che rinviava il fascicolo a una commissione provinciale, la quale interrogava il denunciato e valutava le accuse. Tutto senza tribunali, giudici, avvocati, giornalisti. I denunciati potevano essere diffidati o ammoniti, destinati al confino in un altro comune o in una colonia. Come quella di San Domino, nelle isole Tremiti, dove ancora oggi si vedono i capannoni che accolsero Ninella e gli altri protagonisti del libro di Colaone e de Santis. Il volume nasce da una testimonianza vera ma è costruito come un film, con momenti durissimi e punte di tenerezza: c’è anche una relazione con un esponente del potere e non manca un delitto passionale. Gli autori affrontano la durezza, la fatica, l’umiliazione del confino con un tono leggero, pur nell’accurata ricostruzione della vicenda.

Altri hanno documentato le storie degli omosessuali italiani sotto il fascismo, in film, documentari, canzoni. E libri, come quelli di Giovanni Dall’orto, Lorenzo Benadusi, Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio, oppure il recentissimo Adelmo e gli altri – Confinati omosessuali in Lucania, di Cristoforo Magistro (Ombre Corte, 208 pagine, euro 18). Il volume nasce da una mostra fotografica che ha debuttato quattro anni fa a CasArcobaleno di Torino e poi è stata presentata in altre varie città; dopo una prima parte che illustra la situazione storica e sociale italiana nel Ventennio, nella seconda ripropone le storie delle persone della mostra. Volt e vite che altrimenti sarebbero state dimenticate, come i fascicoli che le raccontano, e che Magistro ha salvato dall’oblio attraverso un lungo lavoro di ricerca negli archivi, quelli che rimangono. Ha tradotto il linguaggio burocratico, goffo e formale, in brevi racconti, che spesso nascondono qualche sorpresa. La più grande è proprio la scoperta che dei circa 300 omosessuali italiani mandati al confino tra il 1938 e il 1942, molti finirono in Basilicata, in piccoli centri dove furono accolti con benevolenza, e spesso riuscirono a ricostruire qualche forma di relazione sociale. Come racconta Carlo Levi, c’era verso di loro curiosità e generosità, unite a volte a rispetto, quando non ammirazione. Molti tra i deportati omosessuali avevano un buon livello culturale, o erano esperti nel loro lavoro, di sarti, fabbri, antennisti. E un lavoro dovevano cercarlo, perché il sussidio governativo, quando c’era, era misero e non bastava per coprire vitto e alloggio: così i confinati accettavano paghe inferiori alla media della popolazione, che era già poverissima. Una guerra tra poveri, dentro la Grande Guerra che vedeva coinvolta l’Italia. Adelmo è il più giovane, ha solo 19 anni quando viene inviato al confino: la sua storia occupa una pagina scarsa, mentre quella di Giuseppe, studente di 22 anni, fermato in compagnia di un marchese, è quasi un romanzo, tra abbandoni, missive nascoste, malattie e miserie. E una relazione impossibile con un marchese, che sarà condannato pure al confino, ma troverà subito rifugio in Svizzera. In una lettera gli scrive queste parole: «Io, terminato il confino (se Dio non mi chiama a sé prima di allora) non so cosa farò e dove andrò perché avrei l’intenzione di ritirarmi dalla vita, più per disprezzo che per timore della società, votandomi completamente a Dio nella pace di un convento». Giuseppe non vedrà esaudito il suo desiderio, e morirà nel luglio del 1941, durante una breve licenza, annegato a Santa Maria di Pozzallo per salvare il fratello minore dal mare mosso.

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