Ritorno a scrivere ma in corpo 6, massimo 7, qualcosa che non crei fastidio ma solo un rumore di fondo come quello della macchina per scrivere di mia mamma, una Olivetti Lettera 32.
Dice, ma se non vuoi che ti leggano perché scrivi? Ma io voglio che siamo in pochi, che si capiti qui per caso, per un bisbiglio, un invito non dovuto, quello che si addice a un consolo. Ho bisogno solo di fare esercizio dopo l’anchilosi degli ultimi mesi. Son cose che è meglio fare nel tinello, tra di noi, a fumare vicino la finestra mentre di là, nel salone buono, gli altri discutono e alzano la voce, divertendosi o forse no.
Mia mamma mi ha lasciato una Olivetti Lettera 32 dicevamo, o forse non ve lo avevo detto; era il regalo fatto da mio nonno per i suoi diciotto anni. Le famiglie più ricche regalano l’auto per celebrare la raggiunta maturità, qull’invito all’indipendenza. Per mio nonno, sminatore analfabeta morto di crepacuore dopo anni di campi di concentramento come partigiano, l’indipendenza era sì una macchina, ma per scrivere, non da guidare.
Mi racconto che per questo non ho mai avuto bisogno di prendere la patente.
Me ne sono appropriato da piccolo di quell’Olivetti azzurro ghiaccio, ho iniziato lì a scrivere, accarezzando le linee zigrinate e razionaliste di Nizzoli, il nastro rosso e nero che mi macchiava le dita ogni volta che lo riavvolgevo, smontando il cofano per disincagliare i martelletti quando avevo foga e accavallavo le parole nella sua cinematica.
Nizzoli faceva il pubblicitario, in questo modo entrò in Olivetti. Ci penso ogni tanto.
Nel tinello si diceva, una pausa dopo il tempo passato di là a tener banco con parole, dati, analisi e storie, soprattutto storie, e qui invece ti accorgi che i sospiri non son altro che il desiderio di svuotarsi come palloncini.
Allora la tengo io l’Olivetti di nonno, ma mamma tanto già lo sapeva: mai richiesta indietro anzi, ogni volta che la ritrovava l’accarezzava con lo sguardo di chi culla nostalgia e poi faceva lo stesso con me.
La Fallaci la usava, lo sai? (quella voce c’è da qualche parte).
Le Giussani ci hanno scritto Diabolik, le rispondevo.
Poi mi raccontava quando andava a lezione di dattilografia dalle sorelle Ravizza che le facevano coprire le mani con un foglio durante le dettature per esercitarsi nella propriocezione delle dita.
Le stesse mani coperte dal lenzuolo che ho cercato nei giorni scorsi, per farti percepire anch’io che c’ero.
Non ci si abituerà mai al dolore dei verbi al passato concordati al tuo nome.
Abbiamo così tanto bisogno di fuggire ora. Abbiamo così tanto bisogno di una macchina per andarcene lontano; una macchina che accolga tutti, che comprenda l’ovunque.
Allora grazie di avermi lasciato la tua in regalo: la cura per quella spina che è entrata nel cuore in un’apnea sempre più lunga.
Inizio in corpo 6, forse 7, poi si vedrà.
Ora chiudete un po’ quella porta che esce il fumo e poi quelli di là che starnazzano tanto, vengono qui a infastidirci. Io intanto metto su il caffè e ci raccontiamo un’altra storia.