I simboli nostalgici si legano a felpe alla moda, gli smartphone branditi al posto di bibbie e crocifissi, spariscono le divise militari scoprendo corpi muscolosi e cappelli di pelliccia. “Etero Pride”, “All lives metters”, “Libertà di essere madri”: i nuovi fascisti si appropriano dei nostri riferimenti e delle nostre parole, per mostrarsi più accettabili ma mantenendo gli strumenti di sempre: violenza e oppressione.
Una domenica mattina ho sentito mia zia dire la parola “queer”. Stava commentando qualche servizio in TV o un telefilm, non ricordo, so che in quel momento la mia testa ha fuso in un cortocircuito come quando si sovraccaricano le schede dei computer.
È indubbio che negli ultimi anni le identità subalterne abbiano delineato, definito, ricercato, conquistato il proprio essere, i propri confini, i possibili spazi. C’è stata un’evoluzione che ha coinvolto tecnologie, strumenti e luoghi digitali che dai collettivi di studi di genere negli Stati Uniti, è passata per una piazza o conferenza italiana e alla fine si è infilata fin dentro un servizio della TV generalista italiana. Mia zia che parla di “queer” e la mia mente fa una capriola.
Viviamo tempi in cui il discorso identitario da tempo non ristagna più nei luoghi reali dei circoli LGBTQIA+, ma valica le mura, le tessere, gli spazi dedicati, i blog tematici, le conferenze, i solipsismi, i monologhi teatrali o le arringhe dai palchi dei Pride (diciamo dal World Pride del 2000? Diciamolo).
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